Penso sia impossibile per definizione ridurre il concetto di “Complessità” alle poche righe che caratterizzano una brevissima trattazione sulla pagina di un sito. Pertanto rimando chi è interessato alla vasta e più autorevole letteratura in materia.

Mi limito ad esporre alcuni concetti fondanti del pensiero della complessità e, soprattutto, a cercare di elicitare i punti salienti del mio  approccio originale: il modello di studio e di pratica clinica che ho chiamato il “Metodo della Complessità in Medicina Omeopatica”.

A mio avviso la Medicina Omeopatica è da sempre una medicina della complessità. Purtroppo, e soprattutto ai giorni nostri, troppi interessi commerciali l’hanno inquinata, come il persistere di un approccio riduzionista anche da parte di molte scuole di pensiero omeopatiche. Il mio piccolo contributo teorico e pratico riconsidera e rielabora diversi assunti, storicamente trasformati dalle scuole di pensiero che si definiscono più ortodosse in postulati.

Semplice, complicato e complesso derivano tutti dalla stessa radice: Plek, ossia parte, piega, intreccio …
Plicare, plectere significa piegare, intrecciare.
Complicato, da cum plicare, è qualcosa con pieghe: che può essere spiegato. Come un lenzuolo riposto, una stoffa, i petali di un fiore.
Complesso, cum plexus, è qualcosa con intrecci che non può essere spiegato. Come una rete, una maglia, un nido.
Semplice, sem plectere o sin plectere, è senza pieghe o con una sola piega. Un’unica parte: né complicata, né complessa.
Per i problemi complicati esiste una procedura lineare, nota. I problemi sono scomponibili in problemi semplici, per i quali esiste una soluzione.
Per i problemi complessi non esiste una soluzione lineare nota: i problemi non sono scomponibili in problemi semplici. Sono problemi che richiedono più risorse di quelle a disposizione.
In Natura le interazioni lineari sono una rarissima eccezione.
Un sistema complicato è fragile, rigido, non adattativo.
Un sistema complesso – quale un essere vivente – è resiliente, flessibile, adattativo.
In un sistema complicato solitamente esiste una spiegazione completa, una previsione e un controllo.
In un sistema complesso le spiegazioni sono parziali, non prevedibili e non controllabili.
Una buona fetta della scienza medica vorrebbe farci credere che gli esseri umani, i loro disagi e le loro malattie, siano problemi complicati. Sarebbe molto rassicurante!
La realtà dell’esperienza clinica ci insegna il contrario: gli esseri viventi sono sistemi complessi, che presentano problemi complessi.
L’etimologia stessa del termine complessità aiuta a comprendere il senso ultimo dell'”atteggiamento complesso”, che ammonisce circa l’insufficienza del solo approccio analitico e invoca l’integrazione di questo con un approccio sistemico: un sistema complesso non può essere compreso mediante il solo esame delle sue componenti e, per analogia, le “cause ultime” di un problema complesso non sono banalmente quelle delle sue parti essenziali, perché esso non può essere risolto mediante semplice scomposizione ma richiede l’iterazione tra questa e una visione d’insieme.
È questo il punto di partenza dell’epistemologia della complessità  sviluppata da Edgar Morin a partire dai primi anni ’70 del Novecento.
Ho cercato di esporre la basi “Metodo della Complessità in Medicina Omeopatica” nel mio testo Praxis, tradotto anche in Inglese e Tedesco.
Il sottotitolo di quel testo è: La ricerca della coerenza tra l’organizzazione di una sostanza, di un rimedio e di un paziente.
Il primo postulato della Medicina Omeopatica è proprio il concetto di similitudine. L’applicazione del mio metodo parte proprio dallo studio delle sostanze che utilizziamo per fare un rimedio omeopatico.
La similitudine non è solo un principio pertinente all’Omeopatia, esisteva già da molto prima. Semmai Hahnemann l’ha maestralmente chiarito e definito all’interno di un suo paradigma. In qualche modo potremmo dire che tutte le “medicine antropologiche” utilizzano da sempre questo principio: partendo proprio dall’osservazione del sistema/sostanza utilizzata come rimedio. Non si tratta affatto di una banale analogia tra una semplice caratteristica di una sostanza e il suo possibile effetto terapeutico: es. la foglia rossa fa bene al sangue. Piuttosto di un’osservazione del “comportamento” della sostanza: cosa caratterizza il modo di essere di un minerale, una pianta, un animale, un fungo, un battere … per essere quello che è, e non un’altra cosa.
Come dire che ogni sostanza utilizza particolari strategie per essere quella cosa che è. Queste stesse strategie si riconoscono nelle risorse adattative di un rimedio omeopatico, come in quelle di un paziente che si può giovare di quel rimedio: la similitudine sostanza-rimedio-paziente.
Il principio di similitudine è sempre un concetto relativo, che si può applicare a vari livelli di complessità di osservazione di un sistema.
Ad esempio l’uso di Arnica come rimedio per i traumi è diffusissimo. In una grossa percentuale di sistemi traumatizzati Arnica funziona se la similitudine è: sistema che subisce una trauma meccanico – rimedio che stimola la resilienza del sistema.
Le scuole di pensiero omeopatico hanno cominciato a differenziarsi proprio per questo. Alcuni si accontentavano di una buona risposta al trauma meccanico in un’altrettanto significativa quantità di pazienti. Altri si ponevano il problema di come mai quel sistema andasse così facilmente incontro a traumi ripetuti; come mai alcuni pazienti rispondessero bene in acuto e altri migliorassero disagi più complessi del semplice ematoma. Di che tipo di trauma parliamo in un vero paziente Arnica: cosa è stato traumatizzato; che fragilità esisteva prima di quel trauma per fare si che un certo evento fosse così profondamente disturbante e per tanto tempo?
Nel caso di un paziente Arnica cronico il principio di similitudine non è lo stesso: il livello di complessità va ben oltre la constatazione di un incidente meccanico, per quando importante possa sembrare in acuto.
Il significato del proving  è un altro postulato omeopatico.
Senza un buon proving non abbiamo elementi per farci un’idea precisa di cosa sia il rimedio in questione, al di là di altre informazioni inerenti quella sostanza. Verissimo.
Ai suoi tempi Hahnemann ebbe un’intuizione geniale, che definì una metodologia di studio delle sostanze secondo un paradigma che oggi definiamo empirico. Allora però, in pieno Illuminismo, si trattava di un primo tentativo di studio “scientifico”. Chissà tra 200 anni cosa diranno dei nostri paradigmi di scientificità!
Quell’intuizione fu anche un modo di spazzare via la degenerazione che aveva raggiunto la teoria delle signature, ridotta – appunto – alla relazione elementare pianta rossa fa bene al sangue. Non più un’osservazione complessa delle strategie del sistema/sostanza, ma una banalizzazione puerile di una caratteristica del un sistema intero. Come ridurre la storia di un film a un singolo fotogramma.
L’esperienza ci insegna, però, che molto spesso i dati emersi da un proving – quelli che noi chiamiamo sintomi omeopatici – non sono così specifici di un’unica sostanza. Insieme a tanti sintomi relativamente inutili per una diagnosi differenziale ce ne sono altri utilissimi, che però si riscontrano anche in sostanze simili.
Facciamo l’esempio di un veleno di serpente.
Dal proving di Lachesis emergono molti sintomi poco significativi per capire che stiamo parlando del veleno del più strano e grosso crotalo. Al tempo stesso ne emergono altri che sono, però, caratteristici di tutti i crotali. Altri caratteristici di tutti i serpenti. Altri ancora caratteristici di molti rettili. Altri specifici di Lachesis e solo di Lachesis.
Se questo è vero il proving del Surucucu può dirci tanto, ma non solo dello specifico rimedio.
Almeno come ipotesi di lavoro può essere logico applicare il principio della proprietà transitiva. Ergo se abbiamo in letteratura un misero proving di un altro serpente come Toxicophis, possiamo ricordarci che probabilmente i sintomi generali di quest’ultimo sono simili a quelli di Lachesis. Forse pochi sintomi di Toxicophis, se sono diversi da quelli di Lachesis, potrebbero essere specifici. Ma sempre nella cornice dei rettili, dei serpenti e dei crotali. Il cui veleno è principalmente emotossico e non neurotossico come per gli elapidi.
Le ipotesi di studio esistono in tutte le scienze. E’ sano fare ipotesi di studio che spesso sono indice di una buona capacità associativa. Semmai è patologico assumere un’ipotesi di studio a fatto conclamato, senza una seria verifica clinica.
L’analisi di un proving non è mai oggettiva, non può esserlo per definizione. Il proving è il meraviglioso esempio di come la Medicina Omeopatica si fondi sull’osservazione della corporeità soggettiva del paziente. La nostra definizione di sintomo omeopatico non tiene conto del fatto che in medicina si distinguono i sintomi (soggettivi) dai segni (oggettivi).
Oso dire che – per fortuna – ai tempi di Hahnemann la semeiotica medica era essenzialmente clinica, non prevalentemente strumentale come oggi.
Di conseguenza nel proving di un rimedio non si potevano osservare tanti segni: non si potevano raccogliere esami ematologici, biopsie e quant’altro.
Per noi omeopati la diagnosi di rimedio si elabora sulla raccolta di cosa è “curioso” del disagio del paziente. Non su cosa è tipico della patologia dell’homo sapiens. Certamente è importantissimo sapere se il paziente in causa ha una semplice gastrite, se si tratta di un’ulcera o di una neoplasia. Ma la diagnosi omeopatica, di rimedio, necessita di conoscere quanto affligge il corpo soggettivo del paziente, non il suo fisico oggettivo. Dobbiamo ricercare quelle che chiamiamo le modalità della sofferenza del nostro paziente: com’è il suo dolore, quando eventualmente compare, cosa lo può migliorare o aggravare.
Comporre un possibile quadro di come si esprime la sofferenza di un rimedio significa elaborarne le componenti più soggettive: quelle dei provers, come degli osservatori del proving. Ogni scuola di pensiero attribuisce valori diversi a quanto emerge dal proving, in base al suo specifico modello di riferimento.
Eminenti epistemologi come Varela ci hanno insegnato quanto chi osserva e chi è osservato siano un’unica entità.
Il proving può essere elaborato secondo diverse prospettive. Probabilmente tutte sensate, anche se alcune possono essere più sensate di altre. Più precise nel descrivere gli elementi caratteristici: come un frattale.
Secondo il Metodo della Complessità i sintomi omeopatici sono accorpabili in “temi”, che descrivono diversi livelli di complessità delle strategie di un sistema e dei suoi nuclei di sofferenza più strutturanti. Non si tratta di sintomi tutti uguali, distinti solo per gradi repertoriali e collocazione in diverse sezioni del repertorio.
Un altro postulato della cosiddetta ortodossia omeopatica sostiene che solo quanto emerge dal proving sia significativo del rimedio.
Un concetto molto noto ad altri studiosi dell’anthropos che, utilizzando una metafora molto suggestiva, distinguono la mappa dal territorio.
Il proving può essere letto come una mappa, più o meno precisa in base a come è stato condotto e analizzato. Il territorio è il paziente.
Sicuramente una buona mappa di un territorio sconosciuto può guidarci meglio nella nostra esplorazione. Altrettanto sicuramente correggiamo e definiamo le nostre mappe quando visitiamo quel territorio, quando ci avvantaggiamo di migliori strumenti per descriverlo con precisione.
Quando più pazienti trattati con successo, osservati per un lungo periodo in cui quel rimedio ha dimostrato di essere efficace, riferiscono sintomi e temi queste informazioni arricchiscono la nostra mappa. La definiscono, la precisano, la correggono.
Diversamente sarebbe come dire che l’osservatore di un modello astratto – il proving – conosce meglio del paziente quanto gli sta succedendo. Come dire che un omeopata che ha studiato Arsenicum conosce meglio del paziente Arsenicum la sua sofferenza.
Non ha più senso pensare che la mappa del proving ci permetta di domandare al paziente cosa sente più precisamente? Come si immagina lui le sue angosce di morte? Che tipo di bruciore prova quando sente dolore. Quanto si senta soddisfatto della sua iperattività …
Sicuramente il proving ci può informare di tanto.
Sicuramente non è proibito pensare. Anzi è proprio bello farlo!
Sicuramente gli uomini hanno descritto il loro rapporto con il mondo in cui vivono usando strumenti diversi: quelli più congeniali alla loro natura e quelli a disposizione nel loro periodo storico.
Hahnemann pose la basi di un suo metodo di indagine. Grazie a lui, alle sue continue ricerche, abbiamo potuto utilizzare tante informazioni per aiutare tante persone. Ma questo non significa che le informazioni dei proving non possano essere arricchite, guidate, definite da altri saperi.
Sempre rispettando il paradigma della complessità una cosa è l’integrazione di più conoscenze, rispettando una nostra griglia interpretativa precisa: quella della Medicina Omeopatica. Altro è sostituire all’integrazione di un paradigma altri dati ed elevarli allo stesso grado. Inventandosi un’Omeopatia suffragata da visioni intriganti e costruita su poco.
Il concetto di famiglia omeopatica probabilmente è stata un’esigenza, nata dalla crescente disponibilità di rimedi, dalla necessità di precisare le diagnosi differenziali, dal bisogno di classificare e accorpare i risultati di analisi repertoriali che – fortunatamente – allargavano gli orizzonti prescrittivi da poche decine di rimedi a qualche centinaio.
A mio avviso ancora una volta si sono confusi concetti relativi con altri  presentati come assoluti.
In molti casi il tentativo di semplificare l’accesso alle nostre informazioni e alle relative diagnosi differenziali, si è trasformato in una complicazione. Quanto spesso vediamo colleghi spaesati di fronte al fatto che diversi autori classificano altrettanto diversamente la materia medica! Ancora una volta penso che il problema stia nella definizione del proprio modello di riferimento.
Accorpare rimedi è sempre un processo soggettivo, che può avere un senso solo se si esplicita a cosa si dà importanza dell’immagine di un certo rimedio.
Suggerire, ad esempio, che un certo rimedio assomiglia a Belladonna non ha il minimo significato se non esplicito cosa io consideri significativo di Belladonna. Belladonna non è mai un concetto assoluto ma sempre un concetto relativo.
Fermo restando che Madre Natura probabilmente non sente la minima necessità di essere classificata, resta un nostro problema definire in base a che cosa classifichiamo.
Un tipico esempio sono le classificazioni botaniche: le piante possono essere classificate in base al loro aspetto, a dove vivono, ai cosiddetti principi attivi, al loro DNA e molto ancora.
E’ tutto da dimostrare che una classificazione redatta secondo comprensibilissimi principi botanici possa essere utilizzata per accorpare e/o distinguere i nostri rimedi omeopatici.
Se poi dovessimo considerare tutte le famiglie botaniche esistenti, anche solo quelle appartenenti ad una singola classificazione, dovremmo ri-affrontare la complicazione di confrontarci con qualche centinaio di famiglie.
L’accorpamento suggerito dal Metodo della Complessità si fonda innanzitutto su una definizione dei temi più importanti di ogni rimedio e sulla loro interazione dinamica. Sostanzialmente sull’osservazione di come si organizzano le strategie adattative di ogni rimedio, partendo da quelli che considero i nuclei di maggiore sofferenza. Questi elementi, queste interazioni, queste organizzazioni definiscono i rimedi che si assomigliano.
Secondo una prospettiva squisitamente “omeopatica”, secondo gli elementi omeopaticamente significativi di ogni rimedio, in accordo con i paradigmi del mio modello.
Spesso si parte dal riferimento a una sorta di capostipite. Un rimedio meglio conosciuto, semplicemente perché in letteratura è stato più studiato. Ad esempio la famiglia dei rimedi simili a Belladonna, o ad Arnica  o a Tarentula. Quello che nel nostro lessico definiamo un policresto: un rimedio importante nella storia dell’Omeopatia, ma niente affatto più efficace di altri cosiddetti rimedi “minori”. Rimedi che, di fatto, sono solo stati studiati di meno. Niente affatto sostanze meno importanti nella medicina tradizionale o, farmacologicamente parlando, meno conosciute. Basti pensare alla Mandragora, un rimedio molto simile a Belladonna, ma tradizionalmente parlando molto più importante. Basti pensare all’Aglio, al Rosmarino, alla Salvia, alla Frangula, al Cinabro, al Realgar, allo Zucchero, all’olio di fegato di Merluzzo. Medicamenti storici, rimedi popolari o ben presenti nella farmacopea ufficiale, ma di scarso rilievo nella tradizione omeopatica.
Una famiglia omeopatica, secondo il Metodo della Complessità, non è necessariamente formata dal sostanze classificate come simili.
Nel mio primo testo di metodologia, Praxis, ho volutamente presentato la famiglia omeopatica delle droghe. Un insieme di rimedi che non provengono nemmeno dallo stesso regno, come il cactus Anhalonium, il fungo Psilocybe, il rospo Bufo, l’Oppio.
Secondo la mia esperienza la famiglia botanica di Belladonna e quelle omeopatica sono due cose ben diverse: alcuni rimedi si trovano nella stessa famiglia botanica (Stramonium, Hyosciamus, Solanum nigrum). Molti altri no (Tabacum, Dulcamara, Capsicum).
Last but not least, direbbero i nostri colleghi anglosassoni, ritengo di estrema importanza l’essenziale verifica di una seria osservazione clinica. Anche su questo argomento le scuole di pensiero omeopatiche hanno ovviamente visioni diverse. Ho già espresso quanto consideri importante la necessità di procedere nelle nostre indagini seguendo delle ragionevoli ipotesi di lavoro. Tutto questo è completamente privo di senso se queste ipotesi non sono validate da una seria conferma clinica.
Hahnemann scriveva che lo scopo di una buona terapia è aiutare i nostri pazienti a raggiungere i più alti fini della loro esistenza. Una bellissima frase che rischia di suonare scontata o onnipotente, ma che – a mio avviso – serba una profonda verità. Sicuramente è importante aiutare a ridurre la sofferenza che comporta ogni disagio. Altrettanto importante è preoccuparsi di accompagnare i nostri pazienti nel loro percorso, aiutandoli a dare un senso alla loro esistenza. Il migliore possibile.
Gli esempi di casi che utilizzo nei miei libri, nei miei seminari, nei miei articoli, nelle mie aggiunte al repertorio, sono sempre il risultato di una lunga osservazione. Un periodo di qualche anno, durante il quale il paziente non ha dovuto assumere altri rimedi al di fuori di quello consigliato. Ovviamente non per una presa di posizione, ma perché non è stato necessario. Secondo le mie migliori osservazioni un rimedio che funziona bene è in grado di stimolare la resilienza di un paziente a tutto campo. Quindi non distinguo tra i rimedi dell’acuto e il rimedio costituzionale. Non si tratta affatto di una critica a chi lavora diversamente. Semplicemente è il risultato delle mie migliori osservazioni.
Quando penso che un certo rimedio che considero costituzionale non funziona nell’acuto, riconsidero la mia ipotesi.
Ovviamente in una discreta percentuale di casi devo utilizzare rimedi diversi per aiutare al meglio che posso il mio paziente. Ma resto dell’opinione che, per farmi un quadro preciso, le informazioni migliori vengano da quei casi che rispondono allo stesso rimedio per un lungo periodo.
Non uso parlare di rimedi che non ho mai prescritto con buoni risultati, come potrei dire di conoscerli?
Il campo terapeutico e la presa del caso: il sistema medico-paziente-rimedio (dal capitolo 4° di Praxis)
La buona presa del caso in Medicina Omeopatica fa la differenza tra il bravo omeopata e quello mediocre, ma sicuramente anche i migliori devono confrontarsi quotidianamente con le inevitabili difficoltà personali che non rendono sempre possibile una buona relazione terapeutica. Lo studio e la conoscenza delle sostanze, dei rimedi, delle loro relazioni, della letteratura e quant’altro, perde completamente di senso senza una buona presa del caso, senza la consapevolezza della necessità di crescere innanzitutto come essere umano, di conseguenza come medico.
Infatti la principale difficoltà del lavoro omeopatico non è la ricerca del simillimum, ma la presa del caso. Un bravo omeopata non sa solo “trovare il rimedio”, ma soprattutto sa “cercarlo” nell’universo del paziente, stabilendo una relazione che gli permetta di riconoscere quelli che davvero rappresentano gli elementi significativi di quella persona.
Sulla relazione medico-paziente si sono scritti fiumi di inchiostro e sicuramente non è stato detto tutto; personalmente non ritengo affatto di potere partecipare in modo autorevole, né originale, ad un assunto che rappresenta da sempre il fondamento dell’arte medica e terapeutica.
Volutamente uso la parola “arte”, a dispetto dello “scientismo” imperante in una larga parte della Medicina Accademica, che purtroppo frange sempre più consistenti di omeopati cercano goffamente di scimmiottare in mancanza di un fondato paradigma, ma soprattutto del desiderio di fondarlo.
In quest’ottica la presa del caso è infatti un’arte che coniuga tecnica e creatività, precisi codici di lettura e improvvisazione, capacità logiche ed analogiche, bagagli esperienziali condivisibili quanto soggettivi. Come per ogni arte non esiste un “modo” di praticarla, ma tanti modi quanti sono gli omeopati, i loro pazienti e le loro relazioni.
A differenza di altre arti in questa non esistono i “falsi d’autore”: è indispensabile sviluppare sé stessi, lasciare spazio alle parti migliori della propria innata capacità di relazione e cercare di educare quanto la limita.
Cito molto volentieri le parole di un collega che stimo, da cui ho imparato tanto e da cui spero di continuare a imparare: il dott. Alberto Panza.
“… Credo che uno dei meriti storici dell’Omeopatia sia stato quello di aver posto alcune basi per la comprensione della fisicità nei termini del concetto greco di physis, avvicinandola appunto al senso profondo del grande respiro del vivente, rendendola meno aliena rispetto all’algido lessico laboratoristico, e nello stesso tempo portando un’attenzione diffusa (sia pure nella forma assai riduttiva del repertorio) a quella che oggi potremmo appunto definire corporeità, al tessuto che lega diverse aree sensoriali alle condizioni di benessere o malessere.
… Funzione principale del “campo terapeutico” è la costituzione, nello spazio mentale del terapeuta, di una trama che mette in collegamento (con una modalità simile a quella del montaggio cinematografico) la grande quantità di elementi, verbali e non verbali, organizzati o disorganizzati, che il paziente ha portato nel campo. Tutto ciò indipendentemente dall’area di manifestazione della sofferenza (somatica, psichica o, più frequentemente, mista)
… Un elemento importante (e generalmente trascurato) del campo terapeutico è proprio la funzione-contenitore, un presupposto di “narrabilità”, e dunque di pensabilità, reso possibile dall’ascolto partecipe del terapeuta.
… “Stare col paziente” non è un ascolto passivo o una mera funzione di registrazione di dati. Se lo spazio mentale del terapeuta è pre-occupato dalle proprie coordinate teorico-tecniche oppure è saturato, sopraffatto, dal “campo emozionale” creato dalla presenza del paziente, questo “stare” sarà ben poco produttivo. Il possibile disagio provato dal terapeuta nello “stare nel campo” si può riconoscere in due modalità apparentemente opposte, in realtà due facce della stessa medaglia: il rifugio nel tecnicismo e nella protezione di un ruolo presunto asettico e privo di implicazioni personali, oppure nell’assunzione di modalità seduttive o di un atteggiamento paternalistico, consolatorio o assistenzialistico. 
Il primo atteggiamento si riconosce nella rapidità con cui un medico “spara” un farmaco o un rimedio, rifugiandosi a sua volta nel “contenitore” di uno schema teorico pre-pensato. 
Il secondo atteggiamento può ottenere risultati clamorosi ma labili, perché consuma rapidamente le potenzialità del campo. 
In ambedue i casi appare fondamentale, anche per il medico, quella che Bion denominava – ispirandosi a Keats – “capacità negativa”: la capacità cioè di tollerare l’incertezza, il dubbio, la coesistenza di possibilità diverse ed eterogenee.
In questo senso ritengo che il vero agente terapeutico sia il campo nella sua complessità e non uno dei singoli elementi, sia pure fondamentali, che ne fanno parte (restituzione, proposizione o prescrizione). Rispetto al culto dell’atto terapeutico “puntiforme” – culto del beau geste solitario e memorabile, a celebrazione del talento assoluto del terapeuta – il concetto di campo terapeutico prefigura un percorso che si svolge secondo tempi e modalità diverse caso per caso, ma che presuppone comunque la creazione di un campo bipersonale condiviso tra terapeuta e paziente, con tutte le possibili tensioni e disarmonie che possono costellare l’incontro”.
Il concetto di frattale è un ottimo esempio di diagnosi omeopatica. Forse, più semplicemente, è qualcosa di simile all’osservazione di una foglia per capire da quale albero sia caduta. Quella foglia può essere raccolta ed esaminata in diversi periodi dell’anno. Di quella foglia si possono descrivere decine di caratteristiche: il colore, la forma, il peso, la consistenza, la resistenza, l’odore, le venature, il modo in cui si decompone, etc. Alla fine non sono necessariamente la quantità d’informazioni raccolte che permettono il riconoscimento dell’albero; spesso ne bastano poche, organizzate e precise che definiscono con buona approssimazione se sia, ad esempio, una fagacea o una rosacea.
Alcuni degli assunti ricorrenti nelle “leggende omeopatiche”, facenti parte di un lessico ormai consolidato quanto impreciso, riguardano concetti come: la totalità dei sintomi; i sintomi obiettivi …
Non sono la totalità dei sintomi e nemmeno la loro presunta obiettività che consentono una buona diagnosi omeopatica. Già il concetto di “totalità”, così frequentemente ab-usato in ambito omeopatico, la dice lunga sul delirio d’onnipotenza che affligge i medici in genere e, peggio ancora, gli omeopati, specie quelli che credono nel beau geste della prescrizione unica che cambierà radicalmente la vita del paziente.
Ancora una volta, forse, invece di “totalità” il termine “complessità” si addice di più a chi difficilmente raggiungerà l’illuminazione seduto al riparo della testa di un cobra reale.

Lascia un commento